Illustramente, la fiaba
e i Sentieri della Fiaba
nel racconto di Annamaria

di Annamaria Amitrano Savarese
Ordinario di Antropologia Culturale ed Etnostoria nell’Università di Palermo

Illustramente, la fiaba
e i Sentieri della Fiaba
nel racconto di Annamaria

di Annamaria Amitrano Savarese
Ordinario di Antropologia Culturale ed Etnostoria nell’Università di Palermo

Illustramente, Festival dell’illustrazione e della letteratura dell’infanzia, co-ideato e diretto da Rosanna Maranto, giunto alla sua ottava edizione (21-24 gennaio 2021) – si propone, per manifesta intenzione della sua ideatrice, quale contenitore di molteplici interessi rivolti all’illustrazione, all’animazione, all’editoria per l’infanzia; non a caso, anche quest’anno, il programma in visione online ha sviluppato laboratori didattici, collegamenti nazionali e internazionali, molteplici interventi di studiosi ed esperti; il tutto coeso in un unico intento, quello di attestare il principio di un “pensiero bambino”, quale formulato importante dal punto di vista educativo; vuoi per ribadire la necessità di tutelare i diritti dei bambini e degli adolescenti, ampiamente, oggi, violati; vuoi per incentivare i processi di rinnovamento delle metodologie didattiche finalizzate all’infanzia; ma, ancora più importante, perché chiave di volta di una vera e propria rivoluzione culturale capace di coinvolgere anche gli adulti nel ritrovare la curiosità, lo stupore, la voglia di conoscenza; fattori che sono il tracciato su cui si muove il “pensiero bambino”, capace di trasformare – dice la Maranto – “il brutto in bello e l’energia negativa in energia positiva”.

Va da sé che entro questi parametri, è stato – si direbbe obbligatorio – additare la fiaba come codice estetico adeguato a svolgere una tale funzione.

E infatti, ampio spazio è stato dato in apertura del Convegno, proprio, a come questa forma narrativa potesse, ancora oggi, in un momento in cui la si è relegata a pura evasione, da destinare ai fanciulli, svolgere la sua primaria – e si potrebbe dire essenziale – funzione culturale.
Per comprendere un tale impegno bisogna dare fonte alle teorie sull’origine della fiaba, sviluppatesi numerose nell’Ottocento e, in particolare, a quelle evoluzionistiche che rimandano alla teoria vichiana di un uomo primigenio tutto senso e fantasia che, avvolto dalla paura della sua finitezza, al cospetto del grandioso e sovrastante potere dell’Universo, abbia pensato di usare – a suo conforto – l’atto fondativo della parola per transitare dallo stato di Natura a quello di Cultura. In altri termini Egli avrebbe, risposto poeticamente e in maniera immaginifica, all’urgenza dei suoi bisogni e delle sue attese esistenziali.
Dunque, una oralità mitopoietica, arcana e magicamente affabulatrice,  in grado di narrare atti sociali, riti di fondazione, valori etici e spirituali di segno universale. Del resto, che la fiaba possa corrispondere a un remoto stadio dell’evoluzione è stato un concetto ampiamente praticato in particolare negli studi di Carl Wilhelm von Sydow e Will-Erich Peuckert.

E così, perché, a seguito del romantico recupero operato dai fratelli Grimm, essa si è proposta come privilegiato condotto per legare il primitivo con il popolare; quest’ultimo divenuto sopravvivenza della ancestrale condizione primigenia.

Di poi una fiaba che, storicizzatasi nel tempo attraverso la comunicazione “bocca-orecchio”, ha rivestito i temi della sorpresa originaria e dello stupore, propri “dell’infanzia del mondo”, con i contenuti selezionati dalla Tradizione; e così sulla base della traccia mnestica che i gruppi/comunità hanno lasciato come portati significativi nel divenire dei loro vissuti.
Dunque, una tradizione che, accanto al fiabesco accoglie narrati che vengono “dal basso”, dalla “voce della gente”, nei quali – come è giusto che sia – accanto ai motivi dell’illusione e del prodigio, albergano motivi sociali e reali; e dove, nella emersione dell’elementare contrasto dialettico per fini conoscitivi operano, ad esempio: principi e principesse contro lazzaroni e schiavi; fate contro streghe; eroi buoni contro esseri malvagi.
Le componenti fantastiche, di fatto, altro non sono che l’abbellimento e l’imbellettamento che, la parola del popolo, conduce in maniera curiosa e creativa, quasi sempre recuperata, nel magico e nel soprannaturale, di cui è intriso il suo pensiero. Oppure, è esito del desiderio da parte delle classi popolari, di accedere, a quel mondo parallelo, dove accade tutto il possibile in contrasto con ciò che non appare possibile; e dove, l’irraggiungibile e l’incredibile, possono diventare accessibili. Un meccanismo che si nutre di contrasti, emulazioni, imitazioni, miscugli, di ciò che è bene e ciò che è male. La fiaba esprime, cioè, tutto il Bene e il Male dell’esistenza umana; e siccome è l’esperienza a tramare la storia, in essa si trovano usi e costumi, riti ed usanze, in grado di circostanziare ed offrire scenari spazio-temporali e connotazioni linguistiche propri che la tradizione stabilizza come varianti locali.
Va detto però che in ogni caso, nonostante il contrasto tra “buoni” e “cattivi”; e nonostante le cattiverie, le menzogne, i ricatti, “l’agro della favola” è trattato comunque senza tragedia e senza malizia; sicché sempre può sciogliersi quella frase finale: “E vissero felici e contenti” che simbolicamente sembra ricordare – a tutti noi – il merito dell’Antenato per aver saputo trasformare l’impossibile in possibile e l’ignoto in conoscenza.

È opportuno notare a questo punto come la fiaba popolare, nell’ottica di un codice estetico comunicativo che intercetta valori sociali e culturali, mostri, nella molteplicità delle varianti, una materia orale segnata di speciosa pertinenza territoriale; e così non solo per la presenza in essa di elementi realmente connotativi: usi, costumi, abitudini e consuetudini; ma perché il Narratore, pur trasmettendo, nei testi orali quei temi narrativi che echeggiano archetipi lontani o un patrimonio di temi spesso comuni a genti diverse; di fatto, con la sua mediazione specifica, per lingua o per ambientazione, finisce con il creare “testi-individuo”; cioè a dire una oralità che riporta una cultura in cui Lui si riconosce e si rappresenta, nel dare voce alla sua personale interpretazione. Si pensi, in questo senso, al valore che Giuseppe Pitrè ha attribuito nella formulazione del patrimonio di Fiabe, novelle e racconti del popolo siciliano scandito in ben quattro volumi (1875) alla sua narratrice preferita che era Agatuzza Messia. In merito, è bene evidenziare come la teoria di Pitrè stricto sensu circa il valore del raccontare, sia fondamentale per capire la funzione che assume il Narratore in quanto mediatore di conoscenze locali. Del resto Pitrè, già in principio affrontando la sua materia, aveva dichiarato, a scanso d’equivoci, che si trattava di un “argomento serio per dotti”; esito del trasformarsi delle narrazioni fantasiose in vere e proprie storie; materia meravigliosa e immaginifica ma nel contempo, strettamente connessa con le “circostanze della vita e principalmente adatte a tutti senza distinzione di classe”. È noto che le fiabe, ma anche i racconti e le leggende, sono popolari solo se presentano varianti e solo se permettono di individuare precise strutturazioni fenomenologiche, tipologicamente arcaiche. Cioè a dire, questa materia così connotata è di tale significazione che deve essere trattata in maniera “scientifica” e così perché le fiabe (ma anche i miti e i racconti) sono conduttori per una specifica comprensione dei territori; è così perché le narrazioni – esito della oralità trasmessa dalla tradizione – finiscono, di fatto, con il raccontare la storia specifica dei luoghi e delle comunità, nonostante l’apparente fantasia del racconto.
Piace evidenziare, a questo punto, come sia stato proprio Pitrè, con la sua visione, ai suoi tempi totalmente innovativa circa la funzione popolare “degli affabulatori” (tante pagine egli dedica, non a caso, alla tradizione siciliana degli orbi, dei cantastorie, e dei cuntastorie); sia stato, Pitrè – si diceva – a dare seguito a quella teoria nazional-popolare della fiaba, in grado di rappresentare, in contemporanea, sia il linguaggio immaginifico, sia il linguaggio della realtà; permettendo, di fatto, l’insorgenza di nuovi nuclei tradizionalizzabili.
Del resto, nelle narrazioni popolari, è sempre necessario evidenziare, in termini di chiarezza, il valore “riflettente” del narratore nel suo esplicitare, attraverso il dialetto, un’identità territoriale. Ancora una volta, Pitré, in questo senso fu premonitore. Egli infatti precisa come il suo interesse per la narrativa popolare, sia funzionale a rendere in chiarezza “l’indole del popolo siciliano”, alludendo, con questa ricerca, a quel “etnostile” che il popolo esprime quale esito della sua identità culturale. Teoria, questa, che lo studioso costruisce, in pratica, sulla scorta dei portati di scienze quali la Antropologia, la Sociologia, la Psicologia che, nell’Ottocento, erano al loro debutto; e le cui prospettive, Egli antesignanamente, introduce nella elaborazione di quella Demopsicologia, divenuta nel 1910-11, con il suo insegnamento universitario, una vera e propria scienza del folklore. Di fatto un interesse davvero durato a lungo, se cominciato con i quattro volumi di Fiabe Novelle e Racconti Popolari Siciliani proseguito con il volume Fiabe e Leggende Popolari Siciliane (1888); lo porterà a raccogliere quasi 600 tra testi e varianti che testimoniano l’importanza e complessità della sua ricerca. L’attività di docenza è raccolta nel volume La Novellistica, pubblicato postumo nel 2005, nel novero della “Edizione Nazionale delle opere di Giuseppe Pitrè” pubblicata dal Centro Internazionale di Etnostoria di Palermo, con la conduzione scientifica di Aurelio Rigoli.
Va precisato, inoltre, che Pitrè, nel seguire il passaggio delle fiabe dalla oralità originaria alla contemporaneità artistica, evidenzia il “gioco” della varianti e delle affabulazioni, e quale sequenza i testi prodotti hanno lasciato transitando dall’immaginifico al plausibile. Ciò significa che, chi narra, non è necessariamente legato ad allegorie e metafore di un passato primigenio, ma è in grado di metaforizzare l’accaduto, trasferendolo in un linguaggio immaginifico, comunque diverso, rispetto a quello quotidiano. In altri termini, Pitrè, evidenziando la personalità del narratore/testo/individuo, pone con grande modernità due problemi. Quello della rielaborazione dei testi di tradizione orale, con la necessità di validare ogni singola variante nella sua autonomia narrativo-dialettale; e, contemporaneamente, la necessità di segnare i limiti della rielaborazione individuale del narratore, ai fini della conservazione della tradizionalità delle fiabe e dei suoi contenuti; e così, in rapporto all’insorgenza, della mutevolezza dei nuclei narrativi, storicizzabili nei processi tradizionali. Rispetto al primo punto, piace notare come il problema del dialetto-lingua fu, da Pitrè, subito affrontato; se è vero come è vero, che fin dall’inizio Egli pose attenzione al dialetto; tant’è vero che, nel primo volume dell’Edizione 1875, appare un saggio sulla Grammatica del dialetto e delle parlate siciliane, nel quale disegna le linee morfologiche fondamentali attraverso cui accedere ad una lettura delle trascrizioni ortofoniche. Rispetto al secondo punto, piace notare, poi, come Egli esprima, fin da subito, la necessità di dare alle sue raccolte di fiabe, leggende, novelle e racconti, una impostazione tassonomica con l’impianto di tutto un sistema di riferimenti. Di fatti, per ogni testo raccolto, lo studioso riporta diligentemente sia la trama, sia le varianti; quindi le annotazioni filologiche che riguardano la arcaicità dei testi; insieme a tutte le varianti letterarie e a quelle che si propongono come letture contestuali, dovute alla creatività ricreativa del narratore.

In altri termini si precisa che, in una ottica in cui il segno della “popolarità” segue sia il narrato che il narratore, la conformità o meno delle varianti locali ai codici sia formali che contenutistici del genere narrativo-orale, dipenderà dalla capacità del mediatore di tramare, nella materia folklorica, la realtà che gli proviene dalla sua esperienza partecipe ai contesti culturali e sociali di cui interpreta la tradizione; sicché anche se i suoi interventi saranno performativi, la “popolarità” del documento orale-tradizionale, sarà sempre salvaguardata. E così, perché da un lato la narrativa in sé conserverà il suo articolarsi tassonomico a seconda dell’alchimia tra immaginifico e reale in essi presente – anche se è noto che il tipo di racconto orale è, in realtà, polimembre: può essere, cioè, rappresentato sottoforma di fiaba, leggenda o storia –; e, ancora, perché la mediazione del narratore sarà, sempre e comunque, condizionata da quell’habitus dei territori di cui Egli è parte attiva in quanto portatore di quel patrimonio di tratti culturali che costituisce il “nocciolo” individuante dei gruppi-comunità in termini di lingua, socialità, spiritualità; cioè a dire quel quid che gli abitanti dei vari territori – per condivisione e consenso – hanno consegnato alla loro storia.
È come dire che le fiabe, se possono esprimere i contenuti del contemporaneo, devono essere, comunque, compatibili con il linguaggio fantastico della tradizione. Inoltre, se la fiaba esce dal limbo dell’irreale per divenire elemento narrativo di una modalità esperienziale, può, anche, essere indicatore della modalità esclusiva attraverso cui i gruppi-comunità interpretano metaforicamente la loro storia.
In altri termini accade che il narratore può elaborare gli schemi degli antichi narrati innovandoli con la forza delle sue passioni e dei suoi sentimenti contemporanei; ma, va da sé, che tale elaborazione, oggi come allora, dovrà essere sempre parametrata a quell’humus che permette ai territori di rappresentarsi come luoghi della identità e della memoria nella loro singolarità.
Cioè a dire, tramite l’oralità, i territori non solo possono accedere alla conoscenza delle loro “radici”, ma possono dare nuova linfa alla loro spazialità storico-abitativa, localizzando in scenari rappresentativi, quel sapere arcano, o più o meno recente, che la “voce della gente” ha conservato a baluardo della propria identità, appartenenza e riconoscimento. La fiaba cioè, al pari di tutta una narrativa orale-tradizionale è in grado di raccontare ai contemporanei che l’ascoltano, non soltanto la eco dei tempi lontani ma, anche, le modalità più recenti attraverso cui i territori, nel tempo, hanno elaborato il racconto del loro vissuto.

Orbene, piace, qui, indicare, come sia stata, proprio questa ultima interpretazione circa il valore della oralità narrativa tradizionale, a fare da bordone al progetto: I sentieri della fiaba. I territori si raccontano, elaborato dall’Associazione palermitana Illustramente, che si propone quale meta-definizione del progetto internazionale, Le strade delle fiabe, che mira a fare conferire al patrimonio orale-fiabesco delle Regioni italiane partecipanti – attualmente è presente la Regione Puglia; ma sono in corso di affiliazione, Campania, Basilicata e ovviamente, Sicilia – il riconoscimento UNESCO di Patrimonio immateriale dell’Umanità, secondo il modello di conferimento ottenuto nel 2005 dalle fiabe dei Fratelli Grimm.
Ora, in sede di analisi, si è già detto, attraverso quale complesso meccanismo le Genti, conservando e arricchendo il loro patrimonio orale, nonostante la caratura universalistica della fiaba, riescano a pertinentizzarlo territorialmente; riflettendo nei narrati la diversità dei simboli, dei riti, delle conoscenze.
E va detto che, se ciò accade, è perché le fiabe, i miti, i racconti, si arricchiscono di un valore aggiunto che deriva loro dalla scenografia imposta alla narrazione; ragion per cui, vi sarà una simbiosi tra la oralità/intangibile e gli scenari naturali paesaggistici e storico-monumentali in cui essa si ambienta. Un palcoscenico che gioverà all’intero sistema dei beni culturali territoriali: ricchi vuoi del patrimonio di beni immateriali (folklore, dialetti, usanze, credenze); vuoi di quelli materiali ai primi coesi (tecniche di lavoro, manufatti, artefatti, archeologia industriale ecc), risorse “immobili” traslate dalla memoria collettiva come beni caratterizzanti l’identità; da richiamare, oltre il loro valore di documenti ad una più attuale presentificazione.
Dunque un patrimonio di “beni locali” da rifunzionalizzare e da consegnare alla alla trasmissione intergenerazionale, con l’obiettivo di valorizzarlo e promuoverlo ai fini dello sviluppo socio-economico dei gruppi-comunità; che, è, poi, il fine primario che la stessa UNESCO si propone nel suo percorso di censimento dei beni culturali di tradizione, inseriti nel programma cultural heritage, appositamente definito. Pertanto l’impegno, per i territori, è quello di avere la capacità di censire i “lasciti” loro consegnati dal divenire del tempo; cioè a dire di avere la capacità di individuare nel marasma di una odierna modernità, segnatamente superficiale ed eteroversa, quei tratti culturali che anche se “disabituali” (si pensi, in merito, alla esemplare definizione di Heidegger) siano percepibili come tratti culturali rappresentativi della “etnostoria” dei gruppi-comunità.

In quest’ottica, non è un caso se per rendere operativo il progetto, I sentieri della fiaba. I territori si raccontano, si sia voluto dialogare, in primis, con l’ANCI, l’Associazione che riunisce i Comuni italiani, per renderla parte dialogante del progetto. E così non solo perché ciò permetterebbe ai Comuni stessi (in Sicilia se ne contano ben 390) di prendere maggiore consapevolezza del proprio patrimonio culturale sia materiale che immateriale, ma perché gli abitanti, coesi nella visione di un bene comune come identità, possano rendersi protagonisti di una “nuova stagione” in cui la storia locale, i beni culturali di tradizione, le produzioni oikotipiche, i paesaggi ambientali e culturali, possano essere finalizzati alla cosiddetta green economy,  che produce filiere imprenditoriali collegate allo sviluppo di un turismo sostenibile.
In altri termini, questa valorizzazione dei luoghi attraverso la fiaba e, in senso lato, attraverso l’intero sistema del cultural heritage, deve considerarsi una sfida e una scommessa che, coinvolgendo dal “basso”, richiami le unità locali individuanti a raccontare la loro storia e ad essere protagoniste della custodia e cura dei loro beni culturali di tradizione perché, al di là di tutto, patrimonio “umano” senza il quale l’individuo si disperde nella omologazione.
Un pronunciato, di fatto, apparso evidente fin da subito quando, con la Convenzione dell’Aja, si è pensato, per la prima volta grazie a Karl Von Habsburg (Presidente del Blue Shield International – partner dell’UNESCO sin dal 1954) ad un necessario protocollo internazionale di protezione dei beni culturali contro la minaccia, ad ampio raggio e con pluri-motivazioni, di una loro dispersione e di un loro degrado.
Ecco perché, nell’ambito del progetto, I sentieri della fiaba. I territori si raccontano, e con la finalità di un più ampio coinvolgimento delle istituzioni locali si vuole offrire loro, nel merito, almeno tre punti di riflessione:

• che si abbia piena consapevolezza dei beni di tradizione posseduti nella loro diversità e singolarità localistica con la costituzione di una Land Heritage List.
• che la consapevolezza dei propri beni di tradizione – siano essi soggettivi o oggettivi – si abbini ad una consapevole modalità di custodia, condivisa ai fini di una identificazione di appartenenza e di riconoscimento, con la costituzione di un Archivio Culturale Informativo.
• che la configurazione della identità etnico-culturale dei territori, dovuta alla percezione del proprio patrimonio culturale tradizionale, divenga per le Istituzioni e per le agenzie formative un problema primario su cui investire la propria credibilità rappresentativa, da affidarsi alla continuità transgenerazionale.

In conclusione, risulta emergente il desiderio di una valorizzazione generale dei territori attraverso il patrimonio culturale sia materiale che immateriale; tanto più che le nuove prospettive di un turismo verde si affidano proprio alle filiere che si collegano ai beni di tradizione, valorizzati anche come “luoghi dell’identità e della memoria”. Sicché, alla fine, ritornando al senso di un turismo esperienziale, ad un’idea di viaggio che è anche conoscenza e introspezione – come già, del resto, era, nella consapevolezza del “Grand Tour” dell’Ottocento – si possa dare all’Italia, in genere, e alla Sicilia in particolare, quel primato che merita per la sua bellezza, per la sua cultura, per la sua straordinaria diversità combinando l’utile con il bello, il lavoro con il tempo libero, la modernità con il benessere. Così, di fatto, come auspicato in principio di questo intervento.